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Viaggio tra i grandi vini di Sicilia








Volevo segnalare questo bellissimo e colto libro che vuole essere un viaggio attraverso la viticoltura siciliana e i suoi grandi vini, un'approfondita ricerca storica sul rapporto tra l'uomo e la vite: leggenda e narrativa si incontrano e si fondono diventando verità plasmata, e in questa dimensione ci accoglie, svelando ai nostri occhi questa meravigliosa isola. 


“La parola legend, leggenda, viene dal latino legere, che significa leggere. La parola fiction, narrativa, viene dal latino fingere, che significa formare. Da fingere deriva la parola fingers, dita. Noi formiamo le cose con le dita. La parola history, storia, viene dal greco ìstor che significa apprendere o conoscere. Io credo nell’etimologia. Credo che la narrativa sia verità plasmata. Credo che la storia sia uno strumento per apprendere tutto ciò, e che la leggenda sia il nostro modo di leggere tra le righe”.
 

In queste ultime parole della scrittrice israeliana Nomi Eve è contenuta la chiave di lettura della viticoltura siciliana, dove la sua storia, anche moderna, può essere letta appunto attraverso la leggenda.
L’immaginario è costituito dall’insieme delle rappresentazioni che superano il limite posto dall’esperienza e dalle osservazioni deduttiva ad essa legate. Ciò significa che ogni cultura ha il proprio immaginario. Esso è la curiosità per gli orizzonti lontani nel tempo e nello spazio, l’inquietudine e l’angoscia ispirate dalle incognite dell’avvenire, l’attenzione per i sogni, gli interrogativi sulla morte. Mito e immaginario coincidono nel mondo greco e come si può negare che nei viaggi di Ulisse ed in quelli dei suoi imitatori Eubei che hanno portato la vite in Sicilia, la forza dell’immaginario non sia stata prevalente nel condividere con gli altri uomini, non greci, il potere evocativo del vino? Il vino è soprattutto una droga sociale il cui rituale è collegato o al rafforzamento dei legami di un gruppo chiuso o allo sfogo catartico di tensioni sociali in una sorta di carnevale di permissività. L’uomo greco si identifica, attraverso il consumo ritualizzato del vino, all’interno di uno specifico contesto sociale. Da ciò ne discende una preparazione non popolare, ma elitaria, partendo da uve di vitigni che si prestano all’appassimento e provenienti da vigneti che ne consentono la sovramaturazione: i vitigni e gli ambienti pedoclimatici della Sicilia. A chi ripercorre la storia del vino in Sicilia si offrono due scenari antichi molto diversi: la Sicilia greca, dove la vite, assieme all’olivo, divenne la coltura più importante e la Sicilia cartaginese, che puntò invece sulla coltura del grano. Questa distinzione rimase anche dopo la conquista romana e anche se il crescente fabbisogno di grano dell’Impero erodeva sempre più superficie al vigneto, il commercio del vino dalla Sicilia verso la Gallia e la Spagna era ben documentato dalle numerose anfore dei vini Mesopotanium, Inikos, Biblinum, Mamertinum, ed altri ancora. I Regni romano-barbarici prima e la conquista da parte dell’Islam poi, svilupparono soprattutto la produzione di grano, riducendo la viticoltura nei ristretti àmbiti delle grange conventuali e la mancanza della fase comunale, perpetuando il latifondo, accentuò ulteriormente la dicotomia tra le colture granarie ed il vigneto. Per questo motivo la Sicilia non poté mai inserirsi nel favorevole commercio del vino alimentato dalle grandi flotte che lasciavano la Gironda per attraversare l’Atlantico. Questo spiega perché, mentre si gettavano la basi delle grandi industrie vinicole francesi e spagnole, la Sicilia rimase in una posizione subalterna e registrò un limitato commercio di vino, monopolio di abili commercianti ebrei, genovesi e lombardi. Un certo sviluppo della viticoltura si ebbe alla fine del 1700, quando i baroni, interessati a coltivare le terre abbandonate dei loro feudi, ottennero dal sovrano la facoltà di fondare dei comuni e, nella concessione delle terre ai contadini, favorirono gli impianti di vigneti.
Nella seconda metà del secolo XVIII Woddhouse, per incrementare il commercio delle ceneri di soda, notò la somiglianza tra i vini del marsalese con quelli di Porto e Madeira e dopo una prima spedizione di botti di vino Marsala in Inghilterra, che incontrò il favore dei consumatori, iniziò con altri investitori inglesi a sviluppare la viticoltura della Sicilia occidentale. L’attuale assetto della produzione viticola non rispecchia più quello di allora, ma la storia economica ci consente comunque di cogliere quegli atteggiamenti collettivi della produzione del vino che sono determinati dalla pressione della demografia, dalle rappresentazioni sociali e dalle formulazioni ideologiche e religiose. È nell’autonomia di un inconscio collettivo mosso da una sua propria dialettica interna che si ritrovano nelle diverse espressioni della viticoltura isolana gli stilemi ed i mitemi di quelle origini. È nelle frontiere nascoste, nei limes culturali che emerge la frattura tra viticolture diverse, dove l’inerzia delle strutture mentali, prima ancora di quelle dell’organizzazione economica, sono elementi stabili per un’infinità di generazioni di viticoltori e determina una sostanziale immutabilità delle loro scelte quotidiane. Per secoli questa attività assume un carattere normativo, ripetitivo: gli uomini muoiono, ma i nuovi abitanti non mutano le abitudini dei loro predecessori. Questa ripetitività ha posto limiti allo sviluppo dell’attività enologica ed ha avuto anche importanti riflessi sociali ed economici, dove le modalità della viticoltura sono condizionate, non solo dall’ambiente pedoclimatico, ma, come dice Braudel “[…] sono un insieme di problemi, di sfide che gli uomini devono accettare senza però giungere ad equilibri stabili. Da cui le ripetizioni, le oscillazioni, i cicli e la coesistenza tra montagna e pianura, così come tra il mare e la terra”.
Le nozioni di frontiera e di confine non sono di facile definizione se non si utilizza una metafora. Allo scopo di rappresentare qualcosa che separa e unisce allo stesso tempo, è necessario identificare una specie di terra di nessuno, luogo tra due spazi prima di tutto culturali ciascuno dei quali occupato da una cultura, distinta l’una dall’altra. Questa metaforica terra di nessuno è una zona di frontiera dove avviene l’interazione tra due culture o, per contro, spazio capace di produrre continuità storico-culturale e conservazione, a guisa di una sorta di riproduzione delle società originarie che si incontrano senza mai integrarsi. La Sicilia è a questo proposito, insieme alla Campania, seppure con differenze marcate, il paradigma interpretativo di tutta la viticoltura europea, dove, secondo le più recenti teorie antropologiche cosiddette indigeniste, le espressioni dei modelli viticoli ancora riconoscibili in Europa hanno caratteristiche di estrema originalità che hanno mantenuto per millenni inalterate nei loro tratti essenziali, anche se appartenenti a luoghi contigui. Non è difficile cogliere le differenze tra il genius loci che anima la viticoltura primigenia dell’Etna con i suoi terreni vulcanici, le sistemazioni a terrazze ed i palmenti arcaici ed i luoghi mitici della produzione del Biblino nel siracusano o le distese di vigneto disseminate di bagli nel marsalese e tanti altri ancora.
La caratteristica che distingue la viticoltura siciliana da altre è quindi la discontinuità, che non ha premesso la nascita e la valorizzazione del territorio viticolo secondo una concezione prima georgica e poi ottocentesca che tanto di moda va ai nostri giorni. Per questo si può parlare in Sicilia non di viticoltura, ma di tante viticolture dalle radici profonde che si esprimono oggi soprattutto negli uomini che interpretano con la loro cultura, spesso inconscia, l’uva e la sua trasformazione. In un’epoca dove il valore di un vino è sempre più correlato alle valenze comunicative di un certo àmbito geografico, la Sicilia affida le sue speranze viticole alle singole aziende, ai suoi uomini, aiutata in questo, paradossalmente, dal successo dei vini del Nuovo Mondo sia per la condivisione di molti descrittori sensoriali che hanno rilanciato la tipologia dei vini mediterranei, sia per il ruolo secondario che ha il terroir nella comunicazione della qualità. Ma non sono i paesaggi viticoli, ma quelli culturali e della mente che modulano le diversità. In nessun luogo d’Italia, in ogni vino si riconosce l’uomo come in Sicilia. Questo libro non utilizza come filo conduttore della trama narrativa il tema della vocazione ambientale, ma tenta una riconciliazione rinascimentale tra uomo e natura, secondo la praxis dell’homo faber, dove i vigneti conquistati da Prometeo vengono restituiti ad Orfeo. La storia del vino siciliano è quindi un racconto di luce e di tenebre, di conoscenza e di ignoranza, di serenità e di passione sulla scala non dell’uomo, ma del mito. Una storia di nessun interesse se non fosse nata dall’incontro tra Occidente e Oriente e se l’Occidente, per realizzare se stesso secondo il modello che la razionalità greca aveva appena coniato, non avesse impiegato diversi secoli per rimuoverla, costringendola a quella vita segreta, esoterica, le cui tracce sono reperibili nella mistica, nella kabbalà, nell’eresia, nella poesia e nel folclore del caleidoscopio culturale siciliano. Forse l’agire della Sicilia viticola contemporanea si può riassumere in una frase della Poetica di Aristotele: “Bisogna preferire un impossibile che sia verosimile ad un possibile che sia incredibile”.




Attilio Scienza, prefazione a "Viaggio tra i grandi vini di Sicilia", Carlo Cambi Editore, Poggibonsi (SI), 2003, pp. 5-6.



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